Critica
della cosa in sé
Kant sosteneva che tra oggetto e soggetto vi
è separazione: la conoscenza è il risultato dell’incontro tra i dati che
provengono dalla realtà con le forme a priori (intuizioni e concetti puri). Dopo
questo incontro, l’uomo ha piena conoscenza del fenomeno, ossia della
realtà così come appare al soggetto in base alla sua struttura gnoseologica.
Questo, però, ci porta a considerare l’esistenza di una realtà “altra”, ossia
di una realtà in sé (cosa in sé) da cui scaturisce il materiale sensibile filtrato
dalle forme a priori. Ma la realtà in sé non è il fenomeno e, di conseguenza, a
noi non apparirà mai com’ è realmente:per l’uomo è inconoscibile. Risultato: Kant
riesce a pensare,
postulandola, la cosa in sé, ma sostiene che è inconoscibile, poiché non è
oggetto di esperienza.
La Dissertazione del
1770 De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis e la prima
edizione della Critica della Ragion pura, presentano presupposti idealistici e contraddizioni. Infatti, Kant discorre della cosa in sé come di un «oggetto della rappresentazione» e sostiene che la realtà del fenomeno consiste solo nell'esser pensato. Conseguenze: La cosa in sé, dal momento che non è conoscibile, non dovrebbe essere nemmeno rappresentabile. Se la realtà del fenomeno dipende dall'esser pensato, allora vuol dire che tutto dipende dalla coscienza, dall'Io e la cosa in sé diviene superflua.
Reinhold sostiene che la filosofia critica, per
essere scienza, deve trovare un fondamento unico della propria gnoseologia e
superare il dualismo soggetto – oggetto. Tale fondamento è la rappresentazione della coscienza: per esserci un soggetto e un oggetto,
di questi deve esservi la rappresentazione nella coscienza. Conseguenza: non
solo la conoscibilità, ma anche la pensabilità della realtà dipende dalla
rappresentazione. Kant affermava che il noumeno è inconoscibile, ma quantomeno
pensabile come postulato. Con la soluzione di Reinhold, anche la pensabilità del noumeno diviene impossibile,
poiché di questa non si ha rappresentazione. La cosa in sé viene eliminata e
tutto si fonda sul soggetto (Idealismo).
Schulze, nell’Enesidemo, muove una critica esplicita alla cosa
in sé, mettendo in evidenza le contraddizioni interne del pensiero kantiano. Il
filosofo parte dal presupposto del criticismo secondo il quale “la conoscenza è
possibile solo sulla base dell’esperienza (fenomeno)”. Critica di Schulze : il
soggetto conoscente (Io penso e le sue forme a priori), non essendo contenuto di esperienza, non è conoscibile; per il noumeno vale la stessa cosa,
poiché va oltre l’esperienza rappresentabile. L’approdo del filosofo è lo
scetticismo humiano: possiamo conoscere solo le rappresentazioni.
Altra critica
riguarda l’utilizzo del concetto di causalità. Kant sostiene che questo è legittimo se
applicato al fenomeno, però poi ne fa un uso illegittimo applicandolo alla cosa
in sé, dicendo che il materiale d'esperienza del fenomeno scaturisce (cioè, è
causato) dalla cosa in sé. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sé
resta inconoscibile, ma a partire da essa Kant fa dipendere l'intero processo
conoscitivo.
Salomon
ben Joshua, uno studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse
lo pseudonimo di Salomon Maimon,
propone la completa eliminazione della cosa in sé: non si può sostenere l’esistenza
di qualcosa che è non rappresentabile. Il noumeno è esterno alla coscienza
e, quindi, cade fuori della rappresentazione. La coscienza, al di fuori della quale
non vi è nulla, genera sia il contenuto sia la forma. Il contenuto, quando
appare come dato esterno che non dipende dalla volontà della coscienza
(pensiamo a tutte le percezioni involontarie), in realtà è sempre interno, solo
che è inconscio, non consapevole.
Jacobi, nell’opera “Sull’idealismo
trascendentale”, esprime la problematicità della cosa in sé. Se non esiste,
allora tutta la realtà conosciuta e pensabile coincide con il fenomeno e,
quindi, tutto è riconducibile al soggetto e si ha l’idealismo. Se la cosa in sé
esiste, allora si ha il realismo. Però quest’ultimo punto è problematico,
poiché si dovrebbe ammettere la possibilità di rappresentare qualcosa di inconoscibile.
Volendo riassumere,
possiamo affermare che questi critici sostengono che ogni realtà di cui siamo
consapevoli esiste come rappresentazione
della coscienza, la quale funge, a sua volta, da condizione indispensabile del
conoscere. Ora, noi siamo consapevoli, secondo Kant, della cosa in sé ma, allo
stesso tempo, di questa non posso farmi alcuna rappresentazione. Secondo loro, invece, evidentemente la cosa
in sé, da un tale punto di vista, non può configurarsi che come un concetto
impossibile, poiché nulla c’è al di fuori della rappresentazione.
A questo punto dobbiamo precisare una cosa: questi
autori si muovono su di un piano prettamente gnoseologico e non metafisico.
Infatti, ciò che viene discusso, è la possibilità per l’uomo di conoscere la
realtà. Quando il discorso si sposterà sul piano metafisico, sarà sorto
l’Idealismo.
Idealismo
Con il termine Idealismo
si designa una corrente filosofica del periodo romantico che, sulla scia del
concetto kantiano dell’Io penso come principio fondamentale della conoscenza,
propone il soggetto, cioè l’Io, come fondamento non solo della conoscenza, ma
di tutta la realtà esistente. L’Idealismo viene chiamato in tre modi: trascendentale, poiché l’Io è condizione
della conoscenza; soggettivo,
poiché il principio della realtà è il soggetto; assoluto, poiché fuori dell’Io non esiste nulla.
J. G. Fichte
La filosofia kantiana lasciava in eredità il problema del dualismo
generato dall’esistenza della cosa in sé. Se questa esiste, allora vuol dire che
la realizzazione morale è pregiudicata, poiché essendo indipendente
dall’uomo, ha un senso autonomo. Questo significa che non è certo
che la natura venga sottoposta alla razionalità e neanche che l'uomo sia davvero libero.
Reinhold sosteneva che se la cosa in sé è il principio di tutto, vuol dire che è
autonoma dal soggetto, allora si ha il dogmatismo e il determinismo etico: la
possibilità della libertà viene pregiudicata. Se il principio, come diceva
Reinhold, è la rappresentazione del soggetto, allora si ha l’idealismo e la
libertà viene preservata. L’esigenza
fichtiana di realizzare la libertà e la moralità (la cui possibilità è
compromessa dallo stesso sistema kantiano dualistico) è alla base della scelta
dell’Idealismo. La ragione può, così, razionalizzare (spiritualizzare,
umanizzare) la natura (in Kant era una mera ipotesi, esigenza razionale
espressa dalla III critica).
La
possibilità dell’Io di essere, non semplice organizzatore di una realtà autonoma (cosa
in sé), ma creatore della sua realtà (tramite il discorso sulla
“rappresentazione”) fa sì che è esso stesso a dare un senso al mondo, un senso
razionale. L’Io diventa creatore sia sul piano teoretico sia sul piano pratico.
Alla metafisica dell’oggetto subentra la metafisica del soggetto, unica capace di
salvare la libertà posta da Kant.
L’Io, da principio organizzatore di una realtà
preesistente, limitato e circoscritto al mondo sensibile, diventa libero e
infinito creatore della realtà. Con J.
G. Fichte si passa dal piano gnoseologico a quello metafisico.
Ma cos’è l’Io? E’ l’umanità e la sua razionalità nel
suo “complesso” e nel suo sviluppo storico. E’ lo Spirito dell’Idealismo.
In Fondamento
dell’intera dottrina della scienza, Fichte afferma che se l’Io produce la
realtà, vuol dire che fonda non solo il sapere (come voleva Kant con l’Io
penso), ma fonda anche il reale: l’ordine del mondo della natura e il suo senso
(come vedremo fra poco) deriva dall’uomo. Vi sono dei principi attraverso cui
il soggetto ri-produce la realtà come conoscenza e come “palcoscenico”
dell’attività pratica. Ma se la realtà ontologica proviene dall’Io, all’infuori
del quale non vi è nulla, vuol dire esso è l’Assoluto. Una delle
conseguenze più controverse dell’Idealismo di Fichte è l’affermazione secondo
cui l’uomo è Dio. Infatti, se al di fuori dell’Io non vi è nulla, significa che
la chiave di spiegazione dell’essere risiede nell’uomo e non in un Dio
esterno. Il Dio della religione, secondo Fichte, è falso, poiché non può
esistere uno spirito senza l’ostacolo, cioè la materia della natura sensibile.
Nella Dottrina
della scienza (1794), Fichte espone le tappe dialettiche attraverso cui
l’Io impone la razionalità al mondo della natura. Premessa fondamentale è
trovare il principio primo di tutto. In genere questo si identificava con il principio
logico d’identità A = A, ma in realtà deve esserci, a monte, qualcuno che
pone tale principio: esso è l’Io.
Ma questo, a sua volta, deve essere posto in essere. Visto che oltre
l’Io non vi è nulla, l’Io pone se stesso
(Tesi - I principio della
dottrina della scienza). E’ Io puro, autocoscienza, produce ontologicamente la
realtà. Il principio primo è l’Io, dal quale parte la produzione delle cose e
di se stesso: ogni cosa che esiste è un essere - per - l’Io; anche l’Io è tale
solo come autocoscienza, cioè come coscienza di sé.
Il secondo principio è l’Io pone il Non – io (antitesi - II principio della dottrina
della scienza). Perché l’Io deve porre il Non – io? Perché l’Io, per avere
coscienza di sé, deve prima avere coscienza di qualcosa di estraneo, poi
s’interroga sul soggetto che ha coscienza, e si riconosce come Io che ha
coscienza non solo degli oggetti, ma soprattutto di se stesso. In altre parole:
per realizzare se stesso come conoscenza e moralità ha bisogno dell’ostacolo
che gli genera consapevolezza di sé come soggetto originario della conoscenza e
come Io puro libero che agisce moralmente. Come già diceva Kant, se non vi è
sforzo, non vi è azione morale: il Non – io non è altro che la scena dove
agisce la libertà dell’Io. La realtà del Non – io, comunque, è interna all’Io
ed è generata dall’immaginazione produttiva. Sembra, però, esterna poiché è
inconscia. Poi l’io acquisisce consapevolezza e si rende conto che il Non – io
è una sua produzione.
Il Terzo principio è l’Io oppone, nell’Io, al Non – io
divisibile un Io divisibile (sintesi
- III principio della dottrina della scienza). Questa è la situazione concreta
del mondo in cui ogni soggetto divisibile (molteplice: gli individui concreti)
si trova davanti un’ oggetto come ostacolo da superare. Nella realtà concreta
troveremo degli io finiti ed empirici (gli uomini) che tendono a diventare Io
infinito. Che significa? Significa tendere a superare gli ostacoli imposti dalle
cose sensibili, dall’egoismo e dagli istinti irrazionali. Non è altro che il
compito morale che già aveva predisposto Kant e che Fichte intende come una
missione, cioè la ricerca del dover essere ancora non pienamente realizzato.
Infatti l’uomo, deve cercare di diventare infinito e libero (dover essere). Ma
tale obiettivo si realizzerà una volta per tutte? La risposta è no, poiché se
si realizzasse, cesserebbe di esistere, poiché l’Io è tale solo come dialettica
ed opposizione. Il compito, invece, è infinito, poiché l’Io è infinito sforzo
verso la libertà e la spiritualizzazione (razionalizzazione) del mondo esterno.
Ciò che conta è lo sforzo indefinito di auto – perfezionamento. Questa compito
morale infinito che non si realizzerà mai e, quindi, che non permette
l’adeguamento di essere e dover essere, verrà aspramente criticato da Hegel
come “cattivo infinito”.
A questo punto
emerge con chiarezza la funzione della natura materiale: assume una funzione
secondaria, poiché essa esiste solo per lo Spirito, come scena dell’attività
dell’Io. Lo Spirito, cioè, per realizzarsi come intelligenza e libertà, per
imporre la sua forma razionale al mondo, ha bisogno dell’opposizione dialettica
della natura materiale. E’ la teoria dello Streben,
secondo cui è necessario lo sforzo per la realizzazione dell’ordine morale.
Tutto questo discorso, di matrice kantiana, serve a
far comprendere che la moralità, per potersi imporre, ha bisogno dell’ostacolo
(non c’è attività morale se non c’è sforzo). Ecco che il non – io (cioè l’egoismo
e l’impulso sensibile materiale) è necessario per far si che il soggetto possa
imporre il dovere razionale morale.
Riassumendo:
-
Fichte pone l’ostacolo all’Io affinché
questo possa realizzarsi come razionalità libera attraverso il superamento
dell’ostacolo costituito dagli impulsi del’egoismo e dalla materia;
-
L’Io è infinito in due sensi: non ha
alcunché al di fuori di se; è infinito sforzo morale di spiritualizzare il
mondo;
-
Questo è il cosiddetto primato della ragion pratica: la Dottrina della
scienza e il compito della filosofia hanno come obiettivo l’azione della ragion
pratica. L’io Pratico costituisce la ragion d’essere dell’Io teoretico. La
ragion pratica supera i limiti a cui è sottoposta la ragione teoretica,
rendendo l’uomo libero.
Appendice
– La missione sociale del dotto
Secondo Fichte il dovere morale può essere applicato
solo insieme agli altri io finiti. Nel Sistema della dottrina morale (1798)
sostiene che obiettivo di ogni io è la libertà (adeguamento al dovere!). Di
conseguenza, visto che ogni io finito è cosciente che anche l’altro ha il
medesimo obiettivo, deve limitare la propria libertà aiutare anche gli altri a
raggiungere la propria libertà, cioè aiutare l’umanità a farsi sempre più
libera e unificare il genere umano. Ora, per fare questo, è necessario che si
mobilitino i “dotti”. Nelle Lezioni sulla missione del dotto (1794) gli
intellettuali, sostiene Fichte, devono esser personaggi pubblici con precise
responsabilità sociali, come educatori del genere umano, verso il
perfezionamento morale dell’umanità.
Se il materiale gratuito che ti ho fornito ti è stato utile, contribuisci alla manutenzione del sito
Nessun commento:
Posta un commento