Premessa: lo stadio religioso
Nello stadio religioso, mediante la figura di Abramo, è emerso come la fede sia inconciliabile con la morale. Questo, però, non significa che la religione sia immorale o amorale. Kierkegaard, infatti, vuole mostrare come la morale, sia limitata, poiché è una creazione umana e non presenta nulla di così assoluto che possa colmare il senso di vuoto dell'uomo. Nell'ambito della morale, dunque, siamo ancora ancorati all'esistenza precaria umana, alle regole "convenzionali" e "temporali" della vita comune. La morale, sostiene Kierkegaard, non riesce a epurare l'uomo da quel senso di inquietudini che proviene dal peccato originale, non rende ragione della malattia, della sofferenza e della morte. Allora si rende necessario, tramite un salto, ancorarsi alla speranza che proviene dalla fede e abbandonare il regno dell'umano, per inoltrarsi verso l'incontro con Dio. Il rapporto con Dio, però, è specularmente opposto a quello della convivenza umana, in quanto è "rapporto solitario" e l'unico modo di relazionarsi con Dio è l'obbedienza e l'abbandono al suo comando. La vicenda di Abramo, che obbedisce alla parola divina che impone di uccidere il figlio, è un simbolo proprio di come la vita religiosa vada oltre le regole morali (non uccidere il proprio figlio) ed esige un fede forte, capace di liberarsi dai vincoli normativi della ragione.
La fede consiste, dunque, in un rapporto privato e solitario con Dio, al di fuori della convivenza civile.
La vita religiosa, per via di questo carattere esclusivo, diventa “rischio” e “incertezza”. Ciò, dunque, genera l’angoscia., la quale è placata dalla possibilità di poter pregare e dalla sensazione della presenza divina. Dall'abisso, insomma, nasce la speranza; e con questo anche lo scandalo. Il cristianesimo, infatti, è pervaso da una contraddizione, poiché è proprio l'angoscia che fa sorgere il bisogno di pregare e la speranza della presenza divina.
Angoscia, disperazione e fede
L’angoscia è connessa al momento della scelta tra le alternative inconciliabili. A differenza di Hegel, che prospetta una realtà logico razionale i cui momenti trapassano con regolarità l'uno nell'altro, nel mondo di Kierkegaard, invece, ciò è un'assurdità. La condizione dell'uomo, piuttosto che essere incastonato in questo meccanismo dialettico ottimista, risulta invece lasciato al caso, se non anche al caos. Ad ogni cesura della realtà, dunque, non c'è lo Spirito che si muove razionalmente, giustificando magari l'operato umano. Al contrario: ad ogni bivio non esiste alcuna certezza di risoluzione ottimistica, poiché il male, l'errore, il fallimento, o meglio, il nulla, è sempre in agguato. Inoltre, ogni scelta è dell'uomo e per l'uomo, che adesso si ritrova solo a dover sopportare il peso di ogni eventuale scelta sbagliata, con una responsabilità enorme sulle sue spalle. Ecco perché Kierkegaard parla di "punto zero", momento in cui l'uomo si trova immobilizzato poiché ha paura di scegliere, perché non sa quale di queste alternative portano al nulla delle possibilità.
In termini semplice, la libertà di cui gode l'uomo per il filosofo rappresenta un problema enorme, lo impaurisce e lo blocca, senza compiere alcuna scelta.
Nelle opere Concetto dell’angoscia e La malattia mortale, Kierkegaard precisa i concetti di “angoscia” e “disperazione”.
L’angoscia è il sentimento tormentato delle possibilità presenti nel mondo esterno, con il rischio del “nulla” che ne consegue. È il timore, non di qualcosa di specifico (la paura), ma di qualcosa di indeterminato. Secondo Kierkegaard, è il timore legato alla libertà di poter scegliere, poiché si rischia il peccato. Il filosofo porta l’esempio della figura di Adamo che, al sentire il divieto divino, si rende conto di “essere libero” di scegliere il bene o il male. Ogni possibilità favorevole all'uomo, sostiene il filosofo, è annullata dall'infinito numero di possibilità sfavorevoli.
In sintesi: l'aprirsi di infinite possibilità cui l'uomo è dinanzi e la consapevolezza della sua libertà di scelta, apre le porte al sorgere dell'angoscia, a causa delle infinite possibilità che non (il fallimento e dunque il nulla)
Mentre l'angoscia sorge dal rapporto uomo/possibilità mondane, la disperazione sorge dal rapporto dell'uomo con se stesso: è la malattia mortale.
Tutto nasce dal bisogno dell'uomo di poter colmare il vuoto esistenziale di cui soffre. Questo, però, come abbiamo già compreso, è possibile solo - e ambiguamente - nell'ambito della fede.
Se l'Io ha bisogno della fede ultraterrena, ciò significa che non gli basta non solo il mondo, ma anche se stesso. Ecco che la disperazione pone l'uomo violentemente contro se stesso. Esso deve scegliere qualcosa di sé: decidere se essere se stesso o non volere essere se stesso. Nel primo caso, l’uomo si rende conto di essere finito e insufficiente e a se stesso. Nel secondo caso, invece, l’uomo cerca di disfarsi di sé.
Entrambe le opzioni portano allo scacco:
1. l'uomo non potrà mai essere pienamente soddisfatto di sé - necessità infatti di Dio
2. è impossibile disfarsi di sé: si è costretti a convivere con se stessi, le proprie paure e fallimenti.
La finitudine (primo caso) e l’impossibile evasione (secondo caso) mettono in luce la disperazione dell’uomo.
Questa sorta di contraddizione, espressa dalla disperazione, è risolta parzialmente dalla fede, poiché a Dio, al contrario dell’uomo, tutto è possibile. A questo punto, vista l’impossibile autosufficienza dell’Io, Kierkegaard si rende conto di quanto l’uomo sia dipendente da Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio.
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