La differenza con la prima critica: il rapporto con l'esperienza
Nella Critica della ragion pura l’uomo, dal punto vista scientifico, non deve andare oltre l’esperienza, poiché questa consegna all'Io penso i dati a cui applicare le categorie. Se queste sono applicate in maniera trascendente, cioè senza i contenuti dell’esperienza, sono vuote. Il loro uso extra esperienziale è illegittimo. L'uomo "scientifico", dunque, è gnoseologicamente obbligato a rimanere entro i limiti dell'esperienza affinché l'uso delle categorie sia legittimo.
Nella seconda critica, invece, l'uomo "morale" dovrà liberarsi dal legame con l'esperienza, poiché questa rappresenta il regno delle pulsioni sensibili a causa delle quali l'uomo non riesce a produrre un comportamento eticamente valido per tutto il genere umano. Nella Critica della ragione pratica, dunque, l’uomo deve andare oltre l’esperienza sensibile e produrre, grazie alla sua ragione, norme di comportamento universali valide per tutto il genere umano, come se l'uomo fosse pura ragione scevro da egoismi e interessi personali.
In parole più semplici, possiamo affermare che il rapporto con l'esperienza si ribalta. Infatti, dal punto di vista scientifico il mondo empirico è vincolante - poiché ci fornisce i dati per costruire le conoscenza tramite le categorie - ma è moralmente d'intralcio, poiché lega l'uomo alle pulsioni materiali, impedendogli di pensare in maniera moralmente universale.
Il titolo «critica della ragione pratica»
La ragione pratica, a differenza della ragione teoretica, non «spiega» il mondo fisico (scienza), ma produce regole che guidano l’azione della volontà (morale). Essa può essere:
1. pura, quando impone alla volontà una regola che prescinde dall'esperienza (egoismo, impulsi, utilitarismo). In questo caso la ragione si comporta in maniera legittima;
2. empirica, quando impone una regola che è vincolata all'esperienza. La ragione si comporta in maniera illegittima.
Kant sostiene che si deve «criticare» la ragione pratica nella sua parte empirica, cioè quella parte che rimane vincolata all'esperienza, ma anche la parte pura, in maniera da presentarci il suo fondamento, cioè la volontà libera.
Il "fatto" della ragion pratica
Kant intuisce che la legge morale è un «fatto» della ragion pratica, nel senso che la sua esistenza è evidente grazie all'esistenza della libertà. Di essa, dunque, si ha consapevolezza sinteticamente a priori poiché l'uomo, sebbene sia parte del regno animale, ha sempre la possibilità di svincolarsi dagli impulsi e comportarsi in maniera razionale, riuscendo, potenzialmente, di svincolarsi dall'esperienza. Questoa possibilità di potersi liberare dagli impulsi, rende la libertà un fatto evidente di per sé che non bisogna di alcuna dimostrazione e anche il fondamento delle possibilità morali dell'uomo.
La legge morale, dunque, sarà incondizionata (assoluta: ab - soluta, cioè "sciolta" da vincoli), necessaria, universale, proprio perché l'uomo può elaborare regole di condotta razionali non soggette all'egoismo pulsionale.
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La possibilità di farsi soggiogare dal proprio egoismo, purtroppo, è sempre dietro l'angolo. Di conseguenza, la ragione kantiana deve essere prescrittiva, in quanto dovrà obbligare la volontà ad obbedire alla ragione e non agli impulsi (rigorismo kantiano). L'uomo, quindi, imporrà a se stesso la legge morale grazie alla sua libertà, che lo rende capace di non obbedire agli istinti e ma alla parte pura della sua ragione pratica.
In cosa consiste questo "obbligare se stessi"?
L'uomo ordina a se stesso di seguire il dovere in modo incondizionato: obbedire a quella regola della ragione che sia generalizzabile, cioè valida per tutto il genere umano. Se il soggetto, invece, obbedisse ad una regola non generalizzabile, agirebbe solo secondo il proprio interesse egoistico, magari arrecando danno agli altri. In termini pratici, quando l'uomo ha di fronte una regola da seguire, deve valutare se questa regola condurrebbe ad azioni che non arrecano danno agli altri, dunque se questa regola ha validità universale per tutto il genere umano. Questo processo si chiama "test della generalizzabilità o universalità".
Come fa l’uomo a imporre a se stesso di obbedire alla legge universale, piuttosto che agli istinti?
Attraverso una auto coazione, cioè auto imponendosi il dovere, cioè dicendo a se stesso “Io devo” - cioè io devo obbedire alle regole universali della ragione e non agli impulsi sensibili. Questo è l'imperativo categorico. La morale kantiana, dunque, è rigorista, poiché impone la rinuncia, tramite auto imposizione, a lasciarsi guidare dal proprio egoismo.
La legge morale e le tre versioni dell'imperativo categorico
L’uomo impone a se stesso a comportarsi in un certo modo non perché il contenuto dell’obbligo indichi uno scopo preciso, ma per il semplice motivo che tale obbligo, a prescindere dal contenuto, sia prodotto dalla ragione universale umana, capace di produrre norme valide per tutti che possano regolare la convivenza sociale (dovere per il dovere, etica del rigorismo) e difendere la dignità umana, mettendola al riparo dalla strumentalizzazione altrui.
Kant non indica un contenuto preciso, ma fornisce delle indicazioni tali da guidare l'uomo nel selezionare i contenuti (formalismo etico). Ecco le tre formulazioni dell'imperativo categorico:
1. Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale
Cioè: agisci secondo una regola che può valere per tutti (tratta dalla Critica della ragion pratica).
2. Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e non semplicemente come mezzo (tratta dalla Fondazione della metafisica dei costumi). Ciò impone il rispetto della dignità umana.
3. agisci in maniera tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice.
Ciò significa che il comando è interno, è un'auto imposizione, obbedienza alla propria legge, dunque l'uomo è Libero. Si parla di ETICA AUTONOMA e di SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA: la ragione rende l’uomo auto legislatore di se stesso, senza dover ricavare le regole di convivenza sociale da nulla di extra-razionale.
In breve: Kant ci dice che quando scegliamo una regola che guida il nostro comportamento, dobbiamo domandarci se questa regola, se fosse applicata al genere umano, renderebbe conto della dignità umana e preserverebbe i rapporti sociali. Ciò implica che la morale kantiana non è contenutistica, bensì formale, poiché la ragione non mi dice "cosa" devo fare, ma "come" devo fare per scegliere le regole dell'azione. Allora i concetti di bene e di male non saranno cristallizzati una volta per tutte, ma bene o male saranno indissolubilmente definiti volta per volta dalla ragione libera, sulla base del criterio della generalizzabilità della regola di comportamento. Ciò che è bene in un caso, potrà non esserlo in un altro. L'etica kantiana, dunque, è autonoma, libera e razionale.
Il noumeno
L’uomo, agendo secondo ragione, si stacca dal fenomeno e partecipa al mondo noumenico, poiché piuttosto che sottostare al rigido meccanicismo naturale (imposto dalla Prima Critica), sa scegliere liberamente una condotta che ignori gli impulsi sensibili.
Se nella prima critica la libertà era esclusa, adesso, grazie alla capacità di distaccarsi dalla sensibilità, la libertà è ricomparsa come fondamento necessario del comportamento morale. L’uomo si proietta, così, verso una natura soprasensibile.
La libertà è postulato: il «fatto» della ragione pratica (così Kant chiama la libertà) è una evidenza indimostrabile, in quanto s’impone per il fatto stesso che siamo capaci di agire senza gli istinti. La libertà, quindi, è fondamento dell’etica: senza la libertà, l’uomo non potrebbe obbedire alla legge morale, non potrebbe imporsi il dovere e sarebbe costretto ad agire secondo gli impulsi deterministici del mondo animale.
Se desiderate lezioni individuali contattatemi via mail: puglisi.giancarlo@hotmail.it
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