Agli inizi del Seicento, con Giacomo I Stuart, le corone d’Inghilterra e Scozia furono unificate sotto un unico regno, suscitando il malcontento degli scozzesi. Il re, appena arrivato al trono, rafforzò i legami con la Chiesa anglicana e inasprì le persecuzioni contro i cattolici. Sia la monarchia che la Chiesa anglicana non godevano di grande fama, a causa dello stile di vita opulento che vi si svolgeva. Inoltre, in seno al Parlamento cominciarono i primi scontri, poiché mentre il re voleva governare secondo un modello assolutistico, i ceti mercantili rappresentati in Parlamento (MEDIA BORGHESIA) volevano partecipare alla gestione della politica economica in maniera tale da far approvare leggi che favorissero i loro affari.
Nel 1625 il potere passò al figlio Carlo I Stuart, che proseguì la politica religiosa, economica ed istituzionale del padre. Il re, infatti, imponeva nuove tasse senza il consenso parlamentare, prerogativa che già era espressa nella Magna Charta («no taxation without parliamentary consent»).
Il conflitto tra Carlo I e il Parlamento
Il Parlamento, sciolto dal Re per i continui dissidi (1626), fu riconvocato da lui stesso nel 1628 per ottenere l’assenso per i prelievi fiscali necessari a finanziare le campagne militari in Europa per la guerra dei Trent'anni. Il Parlamento, invece, colse l’occasione per obbligare il sovrano a firmare la «Petition of Rights», una petizione dei diritti dei parlamentari. In cambio della firma del monarca, il parlamento avrebbe autorizzato i nuovi prelievi fiscali. La carta fu approvata poiché il re necessitava dei fondi per la conduzione della guerra.
Nel 1629 il re sciolse il Parlamento e non lo riconvocò più per 11 anni. Questo periodo prende il nome di «Lunga tirannia». Il re riprese la sua politica assolutistica e inasprì la tassazione per mantenere le spese reali e le spese per l’esercito: tasse su importazione del vino, tasse fondiarie, tasse sui traffici marittimi (skip money). Il re, insomma, aveva di nuovo danneggiato la classe economicamente più viva del paese, sia i mercanti borghesi, sia la Gentry, cioè la piccola nobiltà terriera capitalistica.
Nel 1638 i cattolici scozzesi insorsero perché l’arcivescovo Laud impose il «book of common prayer» anglicano (cioè un libro di preghiere luterane del 1549). La rivolta costrinse il Re a convocare il Parlamento nel 1640 per ottenere l’assenso per i prelievi fiscali necessari a finanziare le operazioni militari in Scozia. Il Parlamento avrebbe acconsentito alla tassazione solo se il re avesse abbandonato la politica assolutistica. Il re, dopo un mese, sciolse il parlamento («breve parlamento»). A Novembre dello stesso anno Carlo I, a causa del prosieguo della rivolta scozzese, riconvocò il Parlamento, che rimase il carica fino al 1653 («lungo parlamento»). Lo scontro fu durissimo: il Parlamento fece condannare a morte Laud e si oppose duramente alla politica assolutistica del Re, privandolo del diritto di sciogliere il Parlamento quando gli faceva comodo. Inoltre, vi era la questione del controllo dell’esercito: entrambi volevano controllo esclusivo delle forze armate.
Il Parlamento, allora, presentò la «Grande Rimostranza», documento con cui pretendeva di:
1. controllare l’esercito;
2. subordinare la nomina reale dei ministri al previo consenso parlamentare,
3. abolire l’Episcopato, cioè la gerarchia dei vescovi, per poter dare alla Chiesa inglese la struttura democratica presbiteriana, secondo cui ogni comunità o chiesa locale si autogestiva eleggendo in autonomia le proprie guide spirituali.
Carlo I considerò inaccettabili le richieste sopra esposte e ordinò l’arresto dei leader parlamentari. Questi riuscirono a sfuggire all'arresto e ad organizzare la reazione. Siamo nel 1642: è iniziata la I rivoluzione inglese.
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