SOCRATE - Atene 470 o 469 a. C. – 399 a. C.




                                                          

                         Contesto storico

                                                 

Socrate partecipò alla guerra del Peloponneso (V a. C.), la quale condusse alla sconfitta di Atene e all'instaurazione del governo filo spartano dei Trenta Tiranni. Dopo la restaurazione della democrazia in città, ad Atene il clima politica divenne più complesso, specie a causa della maggior attenzione dei democratici nei confronti del ceto aristocratico e di ogni eventuale tentativo eversivo antipopolare. Socrate era un personaggio visto con sospetto, poiché aveva criticato le condanne comminate dai democratici  a danno di alcuni avversari e anche perché era legato ad alcuni personaggi politici "scomodi", tra i quali il tiranno Crizia (uno dei Tiranni che governarono Atene, che fu anche zio del discepolo Platone).


Fonti e rifiuto della scrittura


Ricostruire il pensiero di Socrate è un problema storiografico, poiché egli non scrisse nulla. Siamo in possesso, dunque, solo di fonti indirette.

Perché Socrate non scrisse nulla?

Egli sosteneva che la scrittura comunica le nozioni, ma non insegna nulla. Insomma, essa è apparenza della conoscenza, non vera conoscenza: Ciò rappresenta la condanna alla trasmissione passiva del sapere. Socrate, inoltre, sosteneva che l'unico modo per imparare fosse l’esperienza diretta, la quale può avvenire solo in un contesto sociale e dialogico, cioè all'interno della relazione interpersonale. La venatura sociale del pensiero socratico, che afferma che l'uomo è tale solo in quanto essere sociale, conduce all'elaborazione pedagogica anch'essa sociale. Il dialogo orale, dunque, è l'unico modo attraverso il quale è possibile apprendere qualcosa. Per ultimo, Socrate era convinto che la ricerca filosofica non si conclude mai, poiché non vi è approdo ultimo della conoscenza; al contrario, la ricerca filosofica è infinita, non può essere racchiusa entro i limiti dello «scritto», ne delimiterebbe i confini.


Tra le testimonianze indirette abbiamo le seguenti:


1) Aristofane: commediografo che ritrae Socrate nella commedia Le Nuvole (423 a.C.), in cui lo presenta corruttore dei giovani (come fosse un Sofista) e oppositore agli Dei della Patria.


2) Policrate, politico democratico di Atene: nell’Accusa contro Socrate del 393 a. C., postumo a Socrate, lo descrive come avverso alla democrazia, corruttore dei giovani e oppositore alle credenza religiose di Atene.


3) Platone, discepolo di Socrate, è la fonte più importante ma più controversa, poiché, essendo che nelle sue opere figura come protagonista proprio il maestro, è difficile distinguere quale sia il pensiero di Socrate e quale quello di Platone.


4) Aristotele, che dipingeva Socrate come l'invetore del concetto e il teorizzatore della virtù come scienza.



Cosa hanno in comune Socrate e i Sofisti?


1) attenzione per l’uomo e per sua vita sociale e politica: la filosofia deve educare ed intervenire in questi ambiti

2) scetticismo verso l’indagine sulla natura: le verità ontologiche sono troppo lontane e astratte per essere comprese; inoltre, le dottrine precedenti sulla natura non si accordano su nulla, e nessuna di esse sembra vicina alla verità

3) i criteri dell’azione e del pensiero non stanno fuori, ma dentro l’uomo, riposti nella sua ragione;

4) la Ragione è la fonte di ogni cosa e mette tutto in discussione senza accettare nulla che non sia stato vagliato criticamente dall’uomo.

5) metodo dialettico


Differenza tra Socrate e i Sofisti


1) l’insegnamento non è una professione (Sofisti) ma una missione (Socrate);

2) convinzione nell’esistenza di una verità certa, in contrapposizione a Protagora e a Gorgia

3) rifiuto della retorica come mero esercizio volto a distruggere senza costruire;

4) opposizione al relativismo sofistico: esiste, dentro ognuno di noi, la verità certa che mette tutti d’accordo (verità comuni), che ci consegna un punto di vista oggettivo sulla vita sociale umana. 

5) il relativismo è sintomo di caos, le verità comuni, invece, mettendo tutti d’accordo, evitano sterili discussioni su ciò che è bene e ciò che è male (etica e politica)


Cos’è la Filosofia per Socrate


Socrate in gioventù si dedicò all’indagine naturale (era discepolo di Anassagora) e si rese conto che nessuna dottrina era meglio dell’altra, dunque non è possibile conoscere i fondamenti dell’Essere e il suo scopo. Questo atteggiamento filosofico si chiama agnosticismo ontologico: dal greco antico ἀ- (a-), "senza", e γνῶσις (gnōsis), "sapere", «conoscenza». L’uomo non ha i mezzi per conoscere le cose che sono oltre l’esperienza e deve sospendere il giudizio; può, invece, conoscere le questioni dell’uomo stesso. Socrate, allora, matura l'idea che la filosofia si deve occupare dell'uomo e della sua vita comunitaria al fine di realizzare la virtù. L’indagine sull’uomo, però, impone una analisi all’interno del pensiero umano: «conosci te stesso», cioè riflessione e conoscenza interiore. L’uomo è «uomo» in virtù dei rapporti sociali che lo costituiscono: ciò significa che la socialità è ciò che lo distingue dagli animali. Di conseguenza, per poter capire come essere «uomo» migliore, è necessario che la ricerca filosofica sia non solitaria ma sociale. A questo punto è chiaro perché per Socrate la Filosofia è dialogo interpersonale. 


Cosa significa dialogo?

dià (attraverso, fra) + logos (discorso), cioè:

1. discorso fra più persone;

2. discorso fra una posizione e l’altra, anche fra due opposti.


Momenti della Filosofia socratica e la dialettica


La filosofia socratica, dunque, consiste nel dialogo interpersonale che verte su temi etici e politici, quali i valori supremi della convivenza umana, come la giustizia, il bene, la virtù etc. Il dialogo filosofico, nella prassi filosofica, è dialettica, cioè (dià-legein: «parlare attraverso», «raccogliere» + e tèchne, cioè "arte") arte del dialogare riunendo tutto assieme, che aveva l'obiettivo di trovare le contraddizioni nelle tesi dell'interlocutore, purificare la sua anima, al fine di "aiutarlo", tramite lo stesso dialogo, a trovare la verità da sé, dal profondo della sua anima.


I momenti della dialettica di Socrate sono:


1) Consapevolezza di non sapere

2) l’Ironia

3) la Maieutica


La consapevolezza di non sapere


Socrate sosteneva che «sapiente è soltanto colui che sa di non sapere». Questa affermazione si può intendere in due modi: da un lato indica l'agnosticismo ontologico naturalistico, cioè l'ignoranza riguardo le cause e la struttura fondamentale della Natura; dall'altro essa rappresenta un espediente dialogico che ha l'obiettivo di illudere il proprio interlocutore, al fine di far esporre la sua dottrina da demolire.


L'Ironia


Adesso ci addentriamo nel dialogo filosofico. Parleremo della fase negativa della distruzione delle false conoscenze.

Socrate, prima di aiutare l’interlocutore a costruire la sua conoscenza, deve distruggere tutte le sue false convinzioni tramite l’Ironia (eironèia: simulazione, finzione), cioè un gioco di finzione attraverso cui Socrate, facendo finta di essere ignorante su un particolare argomento, chiede all’interlocutore, che presuntuosamente crede di sapere tutto, di mostrargli la sua conoscenza, anche attraverso una teatrale adulazione. Socrate, poi, comincia a martellarlo di domande (metodo dialettico: serie di domande e risposte, con continue obiezioni, che obbliga l'interlocutore ad una sempre maggiore chiarificazione dell’oggetto) che lo portano al dubbio: questa è la tecnica della confutazione, spesso «irritante», che assomiglia ad una «nobile sofistica», e conduce alla purificazione dalle false conoscenze.


La Maieutica


Questa è la fase positiva della costruzione della conoscenza.

Socrate, figlio di una levatrice (ostetrica), sostiene che la sua missione è quella di far «partorire» le verità comuni alle anime dei suoi interlocutori: questa è l’arte della Maieutica (maieutiké: arte ostetrica).

Ciò ci fa capire che la conoscenza, come abbiamo già anticipato prima, sta dentro l’uomo, non fuori.


Perché dentro l’uomo e non fuori?


Se andiamo a cercare all’esterno, nelle diverse società dell’epoca, non troveremo mai uniformità di concezioni riguardo l’etica e la politica. Nessuno sarà d'accordo con l'altro sul concetto di giustizia o di bene. Se andiamo a cercare al di fuori, cioè nella realtà pratica delle convinzioni della gente, troveremo diverse opinioni da prospettive parziali, relative, dipendenti dal contesto socio politico e dall'arbitrio personale. Socrate, invece, vuole verità comuni, in maniera tale che gli uomini possano vivere in concordia. Una conoscenza comune, però, la si può trovare solo in ciò che di comune hanno gli uomini: la ragione.

Se Socrate fa partorire agli altri la propria conoscenza, ciò significa che la verità è una conquista personale ottenuta tramite l’aiuto del maestro, non un'assimilazione passiva di ciò che viene dall’esterno.


Il "che cos'è", ovvero definizione o concetto


Socrate cosa fa partorire ai suoi interlocutori?

Dopo che Socrate chiede «ti esti»?, cioè «che cos’è»?, senza lasciare alcuna tregua, conducendo alla contraddizione purificatrice, il maestro può aiutare il discepolo a costruire la verità, cioè le DEFINIZIONI.

Ad esempio, Socrate chiede cosa è la giustizia, l’interlocutore risponderà con una serie di casi particolari: la giustizia è il rispettare le leggi, oppure la giustizia è il condurre ragionamenti onesti etc.. Ma questi, in effetti, sono solo casi specifici, non una definizione. Come dice Aristotele: Socrate è l’inventore del concetto, cioè colui che cerca di categorizzare in maniera universale gli elementi comuni di casi pratici.

Come si arriva al «concetto», cioè alla «definizione»?

Si analizzano i casi particolari («giustizia» o «bene») e si estrapola ciò che hanno in comune: ciò sarà il concetto o definizione. Questo processo logico che va dal particolare all’universale (il generale) e si chiama «induzione» (indurre, spingere).


A cosa servono le definizioni?


In campo etico e politico è necessario avere delle verità comuni, su cui tutti concordano, per costruire una comunità virtuosa e ordinata.

In campo filosofico, le verità comuni servono a superare la molteplicità delle opinioni personali.

Tutto ciò ha l’obiettivo finale di superare il relativismo sofistico, che generava caos e nessuna guida sicura per la vita.


I problemi del concetto socratico


1. Socrate ci dice «quali» sono le definizioni?

2. Socrate elabora una «scienza di concetti»?


In realtà, quel poco che sappiamo su Socrate (grazie a fonti indirette già citate in precedenza), non ci permette di poter rispondere di SI. Anzi, a quanto sembrano suggerirci Platone e Aristotele, forse in Socrate il concetto rimane più una pura esigenza razionale. Infatti, il filosofo non elabora una scienza del concetto, ma sembra limitarsi a far emergere verità comuni occasionalmente solo quando interagisce con gli interlocutori di turno. Ciò sembra confermato dall’assenza, nel pensiero socratico, di un «concetto del concetto». 


La morale e la virtù


Prima di comprendere il discorso morale, sarà bene porre delle domande preliminari atte a chiarire il concetto di virtù:


Qual è la qualità che contraddistingue il leone?

Qual è la qualità che contraddistingue il ghepardo? 

Qual è la qualità che contraddistingue gli uccelli?

Qual è la qualità che contraddistingue l’uomo?


Tutte queste domande hanno una cosa in comune: ci chiedono qual è la più elevata peculiarità specifica di ognuno di questi esseri viventi, cioè il loro modo di essere ottimale. Questa si chiama Virtù (in greco «aretè»).

Nel caso dell’uomo, la peculiarità ottimale (la virtù) consiste nel comportarsi secondo ragione, cioè secondo il sapere filosofico (si può dire anche «arte del ben vivere e del ben comportarsi»).


La virtù sia in Socrate, come già nei Sofisti, non è una capacità innata, ma è qualcosa che si conquista tramite la ragione (illuminismo greco) e la relazione interpersonale nel dialogo, cioè tramite l'attività filosofica, poiché solo la conoscenza filosofica, che genera verità comuni (concetti), potrà portare l’uomo al comportamento retto.


Quindi per comportarsi bene l’uomo ha bisogno della filosofia?

SI. La scienza (il fare filosofia), quindi, coincide con la virtù (intellettualismo etico).


Ma cosa insegna questa «filosofia»?


Il bene in sé? NO

Il bene assoluto che vale per tutti in ogni situazione? NO


In realtà Socrate, come già i Sofisti, non crede in una verità esterna che va applicata dall’uomo in ogni situazione. 

Socrate vuole sì trovare verità comuni (concetti) agli uomini, ma non verità comuni cristallizzate e predefinite che vanno applicate ogni volta, per sempre. Socrate vuole verità comuni «al contesto», cioè egli crede che ogni uomo, nello stesso contesto, possa pensare concetti comuni.


Facciamo un esempio:


Una concezione statica e cristallizzata dirà che un concetto morale (definizione generale) di «retto comportamento» è «dire la verità».


Una persona detiene un segreto: sa che un suo amico ha fatto un grave torto ad un uomo un po’ folle. Questo, sospettando il torto subito, vuole ucciderlo. A questo punto va a chiedere alla persona citata all’inizio quale sia la verità: questa, cerca di salvare l’amico che, nonostante il torto, non merita di perdere la vita. Allora decide di mentire e non dire la verità. Questo è il ragionamento che farebbe Socrate: cioè cercare il comportamento razionale, corretto, legato al contesto, alla situazione specifica. In questo caso, paradossalmente, tutti gli uomini, grazie alla ragione che li fa riflettere sulle conseguenze, arrivano alla verità comune che il comportamento retto, in questo caso, è mentire per salvare un amico da un folle omicida.


La ragione filosofica fa da guida morale, riflettendo, considerando le conseguenze e, in primis, sul bene e il rispetto per gli altri nel compiere od omettere un’azione. 


La morale: alcune considerazioni


La virtù socratica può essere insegnata agli uomini, poiché è importante che tutti conoscano la «scienza del bene e del male», cioè la filosofia.


La virtù è unica: giustizia, coraggio, prudenza e altre virtù non sono altro che diversi aspetti di quell’unica virtù che è la scienza del bene, cioè la filosofia. La giustizia, ad esempio, consiste nel saper ben commisurare, tramite il ragionamento filosofico, meriti o punizioni rispetto a un’azione; allo stesso modo, prudenza e coraggio, sono virtù in quanto l’uomo sa (cioè riflettere filosoficamente su quale sia il retto comportamento da tenere in un data situazione. 


La virtù socratica è un valore intellettuale interiore contrapposto ai valori esteriori (salute, forza, bellezza). Infatti la sua filosofia è una forma di razionalismo morale o  intellettualismo etico.


A che serve la virtù socratica?


Essa serve ad esprimere al meglio le potenzialità umane: è un calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore la vita umana. L’uomo che rende ottimale se stesso, secondo Socrate, è felice. Allora si parla di eudemonismo (in greco «eudaimonìa» vuol dire «felicità»). Questa è, però, una «felicità della ragione», una felicità della pace interiore con se stessi, che nasce quando si è consapevoli di essersi comportati bene. Non è la felicità degli istinti, dell’abbandono smisurato ai piaceri più bassi dell’uomo. Anzi, in merito agli istinti, Socrate sostiene che nell’uomo deve dominare la ragione, per porre ordine e concedere agli istinti solo una soddisfazione misurata e controllata.

Benessere, bellezza, forza non sono negativi: devono semplicemente essere sottoposti al controllo della ragione filosofica, che essa sola sa quando e in che misura utilizzarli. La virtù socratica, così, porta ordine all’interno della società e dell’uomo stesso.


Paradossi e presupposti


Socrate deduce che «nessuno fa il male volontariamente»: compie il male solo chi non sa cosa è il bene, chi non l’ha scoperto tramite la filosofia. L’unica cura all’ignoranza, causa del male, è la conoscenza filosofica del bene.

Ma noi ci domandiamo: quando un uomo conosce il bene, deve per forza comportarsi conseguentemente in maniera retta? Per Socrate SI.


Com’è possibile?


Noi sappiamo che spesso gli uomini, nonostante sappiano cosa è il bene, si comportano male ugualmente. Per Socrate, come per la mentalità greca dell’epoca, vi è un presupposto antropologico fondamentale: la volontà è una propaggine, uno strumento della ragione. Non ha una sua autonomia, poiché segue necessariamente ciò che la ragione dice. Quindi, se la ragione ha conoscenze errate, la volontà sarà cattiva; se, invece, la ragione ha conoscenze corrette, sarà buona. La concezione odierna (quella nostra), invece, affonda le radici nella cultura cristiana, secondo cui la volontà libera è indipendente dalla ragione: essa scegli se obbedire alla ragione. Il male, nella concezione cristiana, non è ignoranza, ma una cattiva scelta.


Un ultimo paradosso: Socrate dice che «è meglio subire il male che farlo», poiché commettere il male rende più infelici. Se subisco il male non sono io ad essere infelice e ignorante.


La morte di Socrate

Atene, anno 399 a. C., Socrate ha 70 anni: i democratici (democrazia appena restaurata dopo i trenta tiranni) Meleto, Anito e Licone sottoscrivono la seguente accusa: 

Socrate è colpevole di non riconoscere gli dèi tradizionali di Atene, introducendo nuove divinità; inoltre, è colpevole di corrompere i giovani. Pena: la morte.

Il capo d'accusa principale fu di natura religiosa. 

Nel filosofare socratico sono presenti due appigli che hanno legittimato tale pretesto. 

In primo luogo Socrate, quando filosofava, affermava di essere guidato da un demone,  una sorta di guida divina che lo consigliava su come comportarsi in diverse situazioni. Secondo alcune interpretazioni, il demone era una metafora della voce della coscienza; secondo altre, invece, esso è come una sorta di guida trascendente di origine divina. Insomma: il demone socratico cade nell’abito religioso. 

In secondo luogo, Socrate spesso facevo riferimento al «Dio», un essere superiore che non si sa bene quali caratteri dovesse avere, ma probabilmente era una eredità dell'insegnamento del maestro Anassagora, che sosteneva l'esistenza del Nous, un'intelligenza divina a fondamento del cosmo. Le divinità greche olimpiche erano da lui accettate solo in quanto manifestazioni di questa divinità superiore. Nei confronti di questo ente supremo, l’uomo ha un rapporto privilegiato, poiché è l’unico essere che, grazie alla ragione, gli assomiglia. Quindi, si può dedurre che la ragione dell’uomo è una manifestazione di questo Dio; e forse, il demone socratico citato prima, probabilmente era un modo attraverso cui Dio agisce nella mente razionale dell’uomo. Socrate, insomma, ha un fondo di religiosità nel suo pensiero: l’ordine razionale di cui è capace l’uomo e l’ordine cosmico del mondo non possono essere frutto del caso. Deve esserci una mente ordinatrice (di cui, però, la filosofia non può dirci nulla: ricordiamo che egli abbandonò le ricerche sull’essere e sulla natura).



Le vere cause della condanna


La democrazia restaurata dopo il governo dei trenta tiranni aveva un carattere conservatore: cercava di difendersi da eventuali movimenti sovversivi. La religione, assieme alle istituzioni periclee, rappresentavano qualcosa da custodire gelosamente, poiché erano la base della coesione e dell’ordine sociale. Socrate, filosofo spregiudicato, era un personaggio scomodo; ma, ancora di più grave, è che Socrate era vicino agli ambienti politici aristocratici (anti democratici), i quali avevano ordito il colpo di stato dei trenta tiranni. Il filosofo aveva criticato apertamente i democratici, sia sul sorteggio delle cariche pubbliche, sia sul fatto che al governo non devono starci elementi del popolo, ma personaggi esperti in materia politica (sembra retaggio della sua filosofia, virtù=scienza).

Dopo la condanna Socrate ebbe la possibilità non solo di poter andare in esilio, ma anche di fuggire prima dell’esecuzione.

Perché non si è si è sottratto al suo destino? Perché l’uomo è tale solo all’interno della società in cui vive, nelle sue leggi, nei suoi costumi. L’uomo è uomo solo quando sta insieme agli altri uomini. Chi rifiuta le leggi non è un uomo: anzi, la disobbedienza alla legge, se fosse un comportamento comune, una verità comune a tutti gli uomini, porterebbe al caos, al disordine. Quindi, l’aver accettato la morte rappresenta l’esito più eloquente della sua filosofia: saper come comportarsi bene in un contesto specifico. Inoltre, Socrate ai suoi discepoli aveva sempre insegnato ad obbedire alle leggi, anche se sbagliate: meglio delle leggi sbagliate che vivere senza di esse. Si possono cambiare, ma non trasgredire.

La morte di Socrate è narrata nell’opera platonica «Apologia di Socrate», in cui si narra della vita del filosofo dedicata all’educazione: scappare dalla condanna non sarebbe un buon esempio per i suoi discepoli e per i cittadini. 

Durante la notte dialoga con diversi discepoli e con serenità accetta la morte, la quale è avvenuta all’alba seguente con l’ingerimento della cicuta, un potentissimo veleno. 

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